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Martedì 24 Novembre 2009 20:33

di Sergio Driussi

"Fare comunità", è il tema su cui mi è stato chiesto di fare alcune riflessioni; ma innanzi tutto cosa vuol dire "fare comunità"? Partecipare ad un incontro? discutere? o magari scrivere due righe come queste? Credo che una risposta del genere sia alquanto semplicistica, mentre la questione dovrebbe essere oggetto di un'analisi molto più attenta e complessa.

Io non sono all'altezza di affrontare tale compito, ma credo che la ricetta per "fare comunità" abbia tre ingredienti di base: la sua identità, la valorizzazione delle relazioni, insite in ogni uomo in quanto tale, aldilà delle ideologie politiche e filosofiche, ed infine il sentirsi sempre giovani.

Ricordo che una sera, tornando a casa dopo una lunga assenza per lavoro, provai una calda sensazione rassicurante, quando da lontano, dai finestrini dell'autobus, scorsi la cuspide del campanile dei Rizzi ancora illuminata dai raggi del tramonto, quella cuspide di rame che aveva sostituito l'originale, resa pericolante dalle scosse del terremoto del 1976. Non udivo il loro suono, ma intravedevo dondolare le campane da una arcata all'altra per annunciare l'Ave Maria della sera, e man mano che la sagoma del vecchio campanile si ingrandiva, sentivo che quella sensazione rilassante si trasformava in un dolce abbraccio di bentornato.

A pensarci pare strano che quella costruzione grezza, e non la vicina chiesa luogo delle preghiere abbellito e ristrutturato, possa suscitare tali emozioni e rappresenti il riferimento per una comunità. Forse è la sua altezza che lo rende visibile da lontano, o forse è la sua struttura in pietra che sfida le intemperie slanciandosi in alto come le nostre aspirazioni, fatto sta che quel campanile da sempre ha contraddistinto e simboleggiato una comunità in cui ci riconosciamo. Perché questa sostanzialmente è la sua prerogativa, mentre la chiesa è il luogo del culto, la casa di Dio, il campanile è il simbolo degli abitanti del paese, della frazione, del borgo, anche per quelli non credenti, ed è bello riconoscersi. Io sono dei Rizzi, tu di Colugna, tu di Passons, ma non per contrapposizione, per chiusura o campanilismo, ma per un senso di appartenenza, di famiglia allargata, come mi ha testimoniato quel caldo abbraccio che ho sentito avvolgermi tornando a casa e che credo sia una sensazione comune a tutti, chi più, chi meno, e non solo una mia prerogativa.

Ecco, dunque, il primo ingrediente: l'identità della comunità, che tuttavia non deve essere chiusa e ristretta in se stessa, ma, forte della sua distinzione, deve risultare aperta e collaborativa con le altre realtà, vicine e lontane che siano.

Come detto, il secondo ingrediente per me è la voglia di relazione, la necessità di comunicare che ognuno di noi serba dentro se stesso, in quanto uomo e non semplice animale guidato dall'istinto. Pochi sono degli eremiti, e anche questi dopo lunga, ponderata e motivata scelta, la stragrande maggioranza sente invece l'esigenza di stare insieme agli altri, di avere un contatto umano con cui confidarsi, confrontarsi. Aldilà delle ideologie e delle convinzioni politiche.

Quale ultimo ingrediente ho messo il "sentirsi giovani", ovvero il continuare a mantenere vivi i propri "sogni nel cassetto", rimanendo attivi, con la voglia di fare, di rendersi utili, con la speranza incrollabile di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Forse utopie, tipiche di quella generazione, ma che non per questo ci devono demoralizzare, ma, al contrario, ci devono spronare a continuare, a lottare, a non sentirci inutili e già vecchi, non tanto per l'età anagrafica, quanto per la mancanza di volontà di mettersi in discussione. Non è semplice, lo riconosco, ma il guaio è che l'alternativa diviene l'indifferenza che serpeggia sempre più manifesta nella società. L'indifferenza diviene quindi un elemento negativo, una forma di egoismo che non ci nobilita. Certo, talvolta è meglio "star soli che mal accompagnati", come dice il proverbio, ma perché rinunciare alla possibilità di realizzarsi, di arricchire se stessi? Molte volte risulta più semplice superare divergenze ideologiche, che combattere il nulla, il disinteresse della gente, che stenta a riconoscere il vicino di casa, l'inquilino della porta accanto. Un'apatia che ci rende vecchi dentro e che viene superata solo qualora ci sia un coinvolgimento diretto, un problema personale, obiettivo abbastanza meschino se vogliamo, perché di certo non improntato all'interesse della comunità.

Questi ritengo siano gli ingredienti di base, poi la dose ognuno la può mettere in base alle sue risorse, alla sua disponibilità, ed il resto verrà da solo.

Guardando ora il campanile, quel simbolo così importante per la nostra comunità, mi tornano alla mente le vecchie questioni politiche che avevano diviso il Paese e che ai Rizzi si erano accentuate, facendo rivivere i racconti del Guareschi, con le schiere di Beppino che si contrapponevano a quelle di Don Camillo. Non passava giorno che non fosse tratta in ballo una bega tra i rossi e i bianchi, con le accuse di bigottismo da una parte, e le scomuniche dall'altra. Storie col tempo diventate aneddoti, anche divertenti, ma che all'epoca avevano acceso gli animi di molti.

L'intraprendenza di un giovane ed intelligente prete, che non a caso poi diventerà Vescovo, fece leva sui tanti giovani, pieni di sogni nel cassetto, desiderosi di cambiare il mondo e stufi di quelle continue diatribe nel paese. Riuscirono a realizzare una realtà molto importante e propositiva che per molti anni riuscì a far superare le conflittualità esistenti, riunendosi sotto l'egida del "Circolo culturale ricreativo Leonardo da Vinci".

Avevano tutti e tre gli ingredienti di cui ho accennato: erano giovani, esprimevano la voglia di stare insieme di confrontare le loro idee, i loro sogni e si sentivano comunità, con un'identità ben precisa. Fecero un sacco di attività, dalle gite ad un giornalino, dai cineforum agli incontri di ping pong, dal teatro all'attività calcistica, e a tante altre iniziative, frutto delle idee e della buona volontà di ognuno.

Poi il giocattolo si ruppe, sopraffatto probabilmente dall'indifferenza che gradualmente coinvolse la maggioranza di quei giovani, diventati adulti e impegnati a risolvere i propri problemi personali. Scemata questa forza propulsiva, inevitabilmente anche all'interno del circolo si presentarono le problematiche storiche del paese, ovvero la diatriba politica, che alla fine divise anche quelli rimasti. Il trasferimento di quel giovane prete, che iniziò la sua carriera ecclesiale, acuì il problema, azzerando quasi l'attività del circolo.

Il fuoco che aveva alimentato quella bella realtà, tuttavia, non si spense, e, prima con l'arrivo di un giovane Diacono, poi con il subentro di una nuova generazione di giovani, proprio quarant'anni fa, si riaccese in un nuovo circolo non più prettamente all'ombra della Parrocchia, ma "trasversale" e più consono alla subentrante identità della comunità, che prese il nome di "Circolo Nuovi Orizzonti".

Per la prima volta nel paese si mescolarono le due anime, cattolica e laica, non più sotto l'egemonia della Chiesa, ma in forma autonoma, senza nessuna intromissione politica, nel segno della comunità in cui si evolveva. Una sorta di "compromesso storico" , che nel suo piccolo rappresentò un notevole passo avanti, diventando precursore di quello più famoso, sancito, nelle dovute proporzioni, qualche anno più tardi a livello nazionale.

Dico questo non tanto perché mi onoro di esserne stato uno dei suoi primi presidenti, seppur per breve tempo, visti poi gli impegni di lavoro che mi allontanarono dal paese, ma perché effettivamente fu una realtà molto importante per l'epoca ed un esempio da seguire al giorno d'oggi per dare una risposta concreta alla domanda che mi è stata posta all'inizio, ovvero cosa vuol dire fare comunità, evidenziando molto bene tutti e tre gli ingredienti di cui ho accennato prima.

Per concludere, sento rinascere la voglia di lanciare un appello ai nuovi e vecchi abitanti del paese:
provaci ancora ... Ris!