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L’avventura dei Lunatici e di “Scie nel mare” PDF Stampa Email
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Venerdì 23 Ottobre 2009 19:48

Un’esperienza indimenticabile di teatro e ricerca.

di Costanza Travaglini

Negli scorsi anni ’90 ho cominciato a concepire la mia attività artistico-culturale come una forma di volontariato, collegata a un “dire” che aveva e ha a che fare con la mia professione di insegnante e quindi con un’attitudine che negli anni si è fatta profondamente didattica, ma di una didattica fiduciosa nelle possibilità dell’uomo, nella forza delle relazioni vere, nella bellezza della contemplazione e della scoperta. Mi mancava il luogo per mettere in atto questa che ora interpreto sia come una reale disposizione al dono, sia, più egoisticamente, come un mezzo per realizzare una parte di me che nel lavoro di insegnante allora non trovava la sua strada. Parlo della creatività che mi ha sempre caratterizzato e che in quel periodo concentravo intorno al teatro.


Ho trovato questo spazio nel Circolo Culturale “Nuovi Orizzonti”, del quale ho fatto parte attiva dal 1999 al 2005. Negli anni seguenti ho diradato gradualmente la mia partecipazione, per diverse ragioni di storia personale, ma soprattutto perché ho trovato modalità diverse e anche più impegnative di concepire il mio lavoro. La vita in questo momento mi indirizza in altre direzioni, ma non dimenticherò mai l’ospitalità e l’aiuto che il Circolo mi ha sempre offerto, pretendendo in cambio una progettualità, un esserci, un interagire, oltre che un agire, che il Circolo non può non richiedere, perché sono tutte, da sempre, caratteristiche identitarie dello spazio di via Brescia, eredità storica di un periodo in cui la parola “partecipazione” non faceva paura.

 

Il Circolo Nuovi Orizzonti è uno spazio, allo stesso tempo concreto e astratto, di accoglienza e di forte scambio interpersonale. Ho intuito immediatamente lo spirito del luogo, da quando, una sera di autunno del 1999, ho incontrato per la prima volta Mario Rizzi, il suo presidente, che puliva il pavimento del piano terra con uno straccio e un secchio d’acqua, e intanto mi parlava di quello che il Circolo era, della sua storia, dei suoi progetti… non me lo potrò mai dimenticare, mi dava così un grande insegnamento: cosa comporti la fatica del volontariato ai Nuovi Orizzonti, una fatica a cui lui e molti altri del Circolo non si sono mai sottratti. Ma soprattutto lui.
Ho intuito che fare teatro in questo spazio significava più che mai integrarsi con quello che questo spazio era: odori diversi di cibi cucinati da genti di diverse parti del mondo, vestiti sgargianti, all’africana, e occidentali abiti casual, per lo più tendenti al grigio, al nero, a colori di terra, inni religiosi e gospel, gruppi di ragazzi con strumenti elettrici o acustici, con percussioni, macchine fotografiche, palloni da calcio, scout, artisti, bambini e genitori, lingue diverse, linguaggi non verbali diversi, compresi quello dell’apparente disinteresse o quello dell’entusiasmo… Persone diversissime tra loro ho visto e incontrato in quegli anni: un’integrazione possibile, lo spazio giusto per mettere in atto il mio progetto: una riflessione sul rapporto tra identità e alterità. Tramite il teatro.
Non è nato uno spettacolo solo, ma tre, tutti diversi tra loro, tutti con uno stesso titolo: “Scie nel mare”.1 Si è trattato di un viaggio all’interno della propria identità, attraverso quella dei personaggi prescelti, che hanno dato vita a un accostamento di testi messi in scena nell’unificante ambiente del parco del Circolo (2001 e 2002) e poi nella straniante nudità del palcoscenico vuoto dell’Auditorium di Pagnacco (2003).
Il presupposto basilare di questo progetto teatrale era semplice: l’identità e la diversità sono concetti complementari, ma complementare è necessariamente anche la loro percezione all’interno di ogni persona, pena lo squilibrio verso forme di accentuazione egoistica o egoica della propria individualità o, all’opposto, verso la frammentazione dell’individualità stessa. In ogni caso, la mancanza di un equilibrio interno, tra ricerca e tutela dell’identità da una parte e accoglienza aprioristica e acritica del diverso dall’altra, può essere (per non dire “è”) fonte di malessere per ogni individualità, sia  a livello di persone, che di gruppi sociali. D’altra parte chi dice “io” ha imparato a distinguerlo da un “tu” e da un “loro”. Di conseguenza il “diverso” che incontriamo, a partire dalla nascita, ci fa capire e conoscere chi siamo.
Questi concetti, ora piuttosto diffusi, hanno in realtà attraversato il pensiero filosofico del ‘900, a partire da Buber, Levinas, Bateson, Derrida, per passare attraverso tutta la ricerca psicologica e psicoterapeutica, ma sono arrivati alla mia coscienza di cercatrice attraverso la mediazione di Davide Zoletto, in un incontro formativo del Ce.V.I. per le classi.2
Per comprendere appieno la funzione che un’associazione come quella dei “Nuovi Orizzonti” può avere all’interno della società, non mi sembra inopportuno raccontare come sono arrivata a bussare alla porta di via Brescia 3: il mio percorso è simile a quello di tante altre persone che trovano nel Circolo e nell’associazionismo un ambiente disinteressato, nella sua gratuità, nel suo farsi forte di valori condivisi, fondati sulla solidarietà, sul volontariato e sulla crescita dell’uomo.3
Tutto per “Scie nel mare” è nato nel mondo della scuola, da dove è uscito come un corpo estraneo, nel momento in cui mi è stata chiara l’idea che il teatro nella scuola potesse non essere un semplice fiore all’occhiello dell’Istituto, o una marginale occasione di “addomesticamento” dei fermenti di creatività così vivi in taluni studenti (viene da chiedersi: pericolosamente vivi?), ma una parte integrante della pedagogia, su cui fondare anche la quotidiana azione didattica: una pedagogia dello sviluppo dello studente non limitata agli aspetti cognitivi, ma mirata all’integrazione piena dei vari aspetti della personalità in crescita, compresi quelli emotivi e istintuali, così presenti nell’attività teatrale e artistica, che è per questo considerata equilibrante e terapeutica in se stessa. Il mondo ha bisogno di essere curato, e i giovani in particolare, dal momento che ancora non hanno sacrificato questi aspetti del sé profondo sui banchi di scuola. Non tutti, almeno. E agli altri forse, col teatro si può lanciare un messaggio… mi dicevo.
Una visione del genere è ancora oggi troppo lontana dal mondo della scuola, tranne per alcune figure, eccezioni umane che lo abitano con un po’ di difficoltà. Così, conclusa un’esperienza teatrale di anni, interna all’istituto dove lavoravo, ho trovato il berretto rosso di Mario Rizzi ad accogliermi dietro la porta di via Brescia 3.
Una volta trovato lo spazio, ho cominciato a lavorare sul nuovo progetto, esterno alla scuola, ma che intendeva coinvolgere gli ex studenti che negli ultimi anni avevano fatto teatro con me all’interno della scuola. Erano ormai tutti all’Università e ho lasciato a loro il compito di scegliersi e auto-organizzarsi: al primo appuntamento a casa mia non sapevo nemmeno quanti si sarebbero presentati. Erano 13, con qualche volto nuovo: Lorenzo Baldo, Ludovica Burtone, Valeria Chiarparini, Elisa Coloricchio, Enrico Dazzan, Marco Duriavig, Martina Gressani, Giulia Liva, Andrea Molinaro, Matteo Pittoni, Elena Quaino, Eleonora Ribis, Federica Vincenti. Per  i primi due spettacoli si aggiunse in seguito anche un bambino, Alessandro Crocetta, e dal secondo anno Michele Muradore, Giovanni Nimis e Maurizio Faleschini.
È il momento giusto per ripensarci (anniversari e celebrazioni servono anche a questo), ora che molti hanno messo su casa e famiglia, ora che molti sono dei professionisti, anche nel mondo del teatro, ora che la scuola mi sta assorbendo con una qualità nuova di idealità, di fiducia nel futuro, perché il futuro a cui pensavamo allora è arrivato e, anche se noi non siamo più in attività come gruppo dei Lunatici, ci vogliamo bene, anche da lontano, e lo sappiamo tutti. Questo dà fiducia, e per questo credo che molto dobbiamo anche al Circolo “Nuovi Orizzonti”, che ci ha dato lo spazio giusto per realizzare una visione di “teatro povero”4 che era stata la base anche del mio fare teatro a scuola: la povertà di cui parlo e parlavamo allora non riguardava solo le risorse economiche, ma una qualità di approccio che riflettesse sul significato della finzione scenica e del ruolo interpretato, al di là del contributo di scenografie, luci ed effetti sonori, alla ricerca della nudità dell’attore, aspirando a ideali di autenticità, apertura, armonizzazione, riflessione, crescita dell’uomo. Credevo in un teatro parlante, che potesse portare l’attore a intrattenere una relazione comunicativa forte innanzitutto con se stesso, attraverso il suo personaggio-archetipo, e poi, a livello implicito ed esplicito, con lo spettatore. Sognavo persino, con un po’ di ingenuità, che i professionisti del teatro locale, che conoscevo bene, potessero entrare in dialogo con questa realtà piccola, ma vera, seria, non condizionata da esigenze spesso estranee al fatto artistico, e che potessero anche darle una mano. Dei professionisti del teatro si videro solo Francesco Accomando e Cosimo De Palma, che seppero, in modi diversi, spronarci a proseguire la nostra ricerca. Che invece si è fermata. Le ragioni di questo sono molte e merita analizzarne qualcuna, anche con l’aiuto di quello che scrissi allora. Credo che questo sia un atto dovuto non solo ai miei compagni di viaggio, ma anche al Circolo “Nuovi Orizzonti”, che invece resiste da 40 anni. Al di là delle frasi di circostanza, e al di là degli impegni universitari, il gruppo di “Scie nel mare” visse nel 2003 una crisi oggettiva, che portò a una diaspora e alla sua ristrutturazione. Alla luce del cammino che ho vissuto dal 2005 ad oggi, posso riconoscere che in parte i miei sogni di allora erano condizionati dal mio vissuto, anche caratteriale: spero di essermi liberata da un bisogno di contare e di farmi ascoltare che contribuiva a creare aspettative non realistiche e soprattutto non sempre in armonia. Ma, al di là di questo, molte ragioni venivano proprio dalla questione dell’identità, come emerge dalle riflessioni che seguono che, con qualche taglio, sono quelle di un mio scritto del 20035. Credo sia giusto che le inserisca in questa pubblicazione, perché, se vengono lette metaforicamente, tutto quello che vi è scritto può essere applicato alla vita, e in particolare a quella del Circolo “Nuovi Orizzonti”.

 

Nel 1999 pensavo che riflettere sull’identità fosse un atto profondamente “politico”, ma all’inizio questa, come altre delle mie idee iniziali su questo tema, era più un’intuizione profondissima che un atto consapevolmente pro-vocato dalla ragione. Ora, tutto quello che guardo e leggo mi sembra abbia a che fare con il tema dell’identità e con la sua politicità, perché ho capito che ha a che fare con l’autoconsapevolezza. Acquisirla significa mettersi a riparo dal rischio di manipolare ed essere manipolati. Nel farlo molte sono le trappole che la vita relazionale può confezionare sul proprio cammino. Non è facile perseverare nella ricerca dell’autoconsapevolezza, che può essere molto dolorosa, ma tanto più importante è farlo, quanti maggiori sono gli effetti che si producono. E questa è già politica, della più nobile specie.

 

SPAZIO
Ho sempre immaginato lo spazio dello spettacolo “Scie nel mare” come un non-luogo, cioè uno svuotamento dello spazio reale e quotidiano in cui si sceglie di collocare la messa in scena. Per svuotamento intendevo dentro di me una vera e propria rimozione dei contenuti di significato e di funzione che quello spazio comporta, sia esso un parco, come quello dei Rizzi di via Brescia 3, dove lo spettacolo ha trovato la sua prima accoglienza, sia una piazza, una strada, un intero paese, un campo, un bosco, una montagna...
Questo svuotamento spaziale intende rendere “altro” quello spazio umano o naturale, innanzitutto grazie alla collocazione dei corpi mobili di attori e spettatori. Nella loro maggiore mobilità, gli attori conducono gli spettatori al movimento e a rendere quindi diverso lo spazio. Questo nell’idea che uno spazio non “abitato” non possa nemmeno essere considerato spazio. Anche l’architetto, progettando lo spazio e ciò che lo delimita, vi immagina dei corpi, o almeno dei punti di vista. La trasformazione delle relazioni spaziali tra le persone può portare a una trasformazione dello spazio. Per esempio, se un sacerdote officiasse al centro della chiesa, e ponesse tutti i fedeli nel presbiterio, la relazione ne verrebbe modificata, ma anche l’andamento stesso del rito. Se poi lo stesso sacerdote decidesse di collocare il tabernacolo in uno scrigno appeso al soffitto, al centro della chiesa, sopra la sua testa di officiante, le relazioni sarebbero trasformate anche sotto l’aspetto simbolico. E forse, da qualche parte nel mondo, è già accaduto. Qualcuno ha magari cominciato a progettare diversamente gli spazi delle chiese. Ma queste non sono novità, almeno a partire da Le Corbusier.
Non è nemmeno nuova l’idea di trasformare lo spazio teatrale attraverso la relazione attore - spettatore (Grotowski aveva ben chiaro questo meccanismo, fin dagli anni ’60 e tutto il teatro di ricerca ha continuato a seguirne le suggestioni).
Non è neanche una novità la costruzione di un percorso temporale che trasformi la relazione spaziale tra le persone nel corso della stessa rappresentazione.
Nuova quindi credo sia l’idea di collegare il cambiamento spaziale a tutte le esperienze di cambiamento che possono intervenire in uno spettacolo, al cambiamento in genere e quindi al concetto di identità-alterità. Può uno spazio, se è stato vissuto da un gruppo di persone in modo diverso dalla sua destinazione d’uso, ignorare questo vissuto? O non lo porterà dentro di sé in qualche modo, per così dire nella memoria delle sue pietre? Potrà il parco dei Rizzi essere visto e vissuto secondo l’ottica di uno spazio che cambia, che si presta a diversi significati, in cui le altalene e il campo di basket possano servire ancora a fini espressivi?

 

TEMPO
Ho parlato di altre esperienze di cambiamento. Per quanto riguarda il tempo, ho scelto l’ora del tramonto per il momento d’inizio dello spettacolo. La luce naturale è arbitra. Ogni inizio non avverrà mai allo steso orario e dipende dal ritmo delle stagioni. Il cambiamento è inevitabile e il tempo dell’orologio è eliminato. Ho ricevuto una quantità enorme di più o meno dolci proteste, alle quali ho risposto: se proprio non volete guardare il cielo, consultate il calendario di frate Indovino, ma sarebbe meglio che vi lasciaste andare ai tempi non perfettamente misurabili della natura.
Se il teatro è rito, questo ha a che fare con le sue origini.
Il tempo naturale riporta ad un andare a teatro scandito da tempi diversi e soprattutto relativo al proprio essere individuale: “... se arrivo troppo presto, aspetto; se troppo tardi, mi perdo un pezzo di spettacolo. Corro il rischio o no?” ( ... Che tipo sono io? ...) oppure “A me non piacciono queste cose d’avanguardia, sono così vaghe, non si capisce mai niente, non si capisce quello che vogliono che uno faccia. Ma cos’è questa: una provocazione?...”
E perché no? Cosa c’é di così fastidioso in una provocazione che non vuole offendere nessuno?
Durante lo spettacolo, poi, la scomparsa naturale della luce cala gradualmente attori e pubblico nelle tenebre. Ed è allora, grazie alla luce naturale del fuoco, che lo spazio comincia a trasformarsi, a creare pieni e vuoti diversi da prima, a rendere tutto meno visibile e a provocare in ogni spettatore una discesa dentro di sé, volente o nolente, consapevole o inconsapevole. Qualcuno non ce l’ha fatta.
Forse non ha resistito all’assenza della poltrona più o meno comoda del teatro tradizionale, che isola, ma anche protegge, impedendo per qualche tempo i movimenti spontanei e naturali di ogni spettatore. Le tenebre invece non permettono di distinguere chi ci gira attorno e, in mancanza di poltrone, il pubblico si muove, eccome, chiunque può girare. Occorre fidarsi di sé e degli altri... Per qualcuno è impossibile.
Confido nel fatto che, almeno a livello inconscio, anche in queste persone, in quelli che se ne sono andati, una domanda abbia fatto capolino: perché? Perché non riesco a sopportare tutto questo, e quindi: che rapporto ho con me stesso e con l’altro, anche con quell’“altro” che mi abita dentro? Non è nemmeno questa una novità, e anche qui posso invocare nomi simili a quelli già fatti.
Sempre più luce, comunque, sempre più fuoco, durante “Scie nel mare”, seguendo il percorso senza storia dei testi. Il tempo storico è stato eliminato come quello dell’orologio.
C’è stato un momento, a dire la verità, in cui abbiamo cercato la Storia, quella che potesse contenere a cornice tutte le microstorie suggerite dai testi e dai personaggi incarnati dagli attori. Ma la Storia non è venuta a noi e noi lo abbiamo, più o meno serenamente, accettato. Così non c’è una trama, ma c’è un ordito, tanto forte quanto imprecisabile razionalmente, e in esso ogni spettatore ha potuto, se ha voluto farlo, intrecciare i suoi fili. Ognuno poteva trovare in “Scie nel mare” la sua storia e il suo significato.

 

COMUNICAZIONE
Se c’è una centralità del lettore (Romano Luperini), c’è anche una centralità dello spettatore, che è trascinato nella necessità di dare in prima persona un’interpretazione, anche per il ruolo che ho dato alla parola, o meglio al flusso quasi incessante di parole che ha caratterizzato tutte le versioni di “Scie nel mare”.
Ho appoggiato le mie riflessioni, al contrario di quello che si poteva pensare vedendo lo spettacolo, proprio sulla consapevolezza che il codice verbale è solo uno dei mezzi di trasmissione di senso propri del teatro. L’eccesso di parole è stato artisticamente voluto e perseguito e desidero affermare la mia fede nelle possibilità della parola, pur avendo giocato anche sulle sue potenzialità negative. Troppe parole diventano rumore, o silenzio. Troppe parole, si sa, non dicono nulla. In assenza di altri canali di senso.
Si è quindi affidato agli altri canali di senso il compito di agire ad un livello che non fosse quello razionalizzabile delle parole. Il potere evocativo della visione, del tatto, dell’odorato, del movimento stesso, della percezione dell’altro, forniva una serie di significati a livello implicito, tale da sovrastare il verbale. Secondo ragione erano viceversa le parole a schiacciare il resto. Sicuramente l’intento andava raffinato nell’esecuzione, ma chi ha voluto a tutti i costi inseguire le parole ha inevitabilmente perso la possibilità di evocare, attraverso la propria immaginazione, altri echi dentro di sé.
Ho rinunciato ad essere guida della percezione del pubblico, applicando le suggestioni del pensiero della complessità e lasciando quindi alla vera identità di ogni spettatore la possibilità di scegliere cosa percepire e come. Questo sempre in un’ottica di centralità dello spettatore stesso.
È con questo procedimento che, se pur con tempi e ritmi diversi e con diverse modalità di comunicazione, ho lavorato anche con gli attori, in un processo che ha di conseguenza avuto i suoi momenti di difficoltà.
D’altra parte il mio pensiero, come normalmente avviene in una ricerca che sia tale, si chiariva via via, e di conseguenza non era esplicitabile come lo è ora. Non ho voluto, ma non avrei neanche potuto, offrire parapetti sicuri da cui contemplare, per poi affrontarlo, il grande tema del rapporto tra identità e alterità (e tra identità/alterità individuale e quelle collettive). Agli attori, nel loro complesso, con intensità e reazioni diverse, è accaduto quello che, in misura e qualità diverse, può essere accaduto a molti spettatori.
Così forse, nello sforzo di capire tutto il verbale, qualcuno ha sofferto molto, per poi com-prendere in modo intuitivo il senso e innamorarsi del lavoro, qualcuno si è lasciato cullare o sconquassare dal ritmo delle parole, qualcuno si è magari lasciato andare ad altri sensi, oltre a quello dell’udito e così facendo ha permesso, attraverso l’evocazione immaginativa, quella discesa dentro di sé che lo spettacolo vuole provocare, alla ricerca di domande e di risposte. Qualcun altro, forse, assediato dalle parole, ha finito per abbandonare anche la poltrona della ragione, che troppo spesso immobilizza, come quella del teatro, ma come quella rassicura, permettendo di “capire” (da capio?) i movimenti intellettuali ed emotivi dello spettacolo. E qualcuno avrà forse potuto rinunciare al giudizio regolatore, all’uso di parametri artistici codificati.
Non volevo che lo spettatore usasse troppo la ragione, ma che facesse riferimento alle sue emozioni, magari a quelle più nascoste o più difficili da tirar fuori, come la disperazione che l’uomo stesso è capace di creare intorno a sé, con la sua inconsapevolezza, ma anche con l’intolleranza e le guerre, o come il senso del mistero di ciò che non si può conoscere. Non tutto infatti può essere assimilato a se stessi, reso “identico a sé” nel senso di “parte di sé”, divorato quindi, come ciò che da sconosciuto diventa conosciuto. C’è un “diverso” che inevitabilmente rimane inconoscibile e non assimilabile, anche nella nostra onnivora cultura occidentale.
Con tutti gli attori molto tempo è stato dedicato alla discussione e a tentare una condivisione che è stata via via più difficile. Personalmente alle spalle sento di avere il rigore della disciplina, che però la mia generazione ha combattuto e che non si sente facilmente di re-introdurre come regola. Eppure il teatro è disciplina, del tipo più difficile, quello interiore. Questo ha creato nel nostro gruppo distorsioni comunicative, che mi hanno portato ad usare modalità dure, e addirittura ad andare in collera, nello sforzo di non disperdere energie a poche settimane dalla data fissata come obiettivo, ma in realtà bruciandone molte, come sempre accade in questi casi.

 

REGIA/ATTORE
Si apre a questo punto una riflessione, sempre attuale nel teatro, sul ruolo del regista, che probabilmente, come afferma Orazio Costa, non può essere che la coscienza unificante dello spettacolo. Aggiungerei “servizievole”. Per raggiungere un simile livello, però, occorre compiere un lungo e difficile cammino di auto-consapevolezza (e anche questo c’entra con l’identità, come, in breve qui si può dirlo, tutto nel teatro ha a che fare con questo concetto). Un simile cammino è irto di tentazioni, perché in un gruppo, in generale, sono pochi quelli che accettano la propria funzione. E, se è difficile accettare quella di leader, a volte è ancora più difficile non desiderarla. E questo può accadere a molti. Ed è anche difficile non usarla. Attualmente credo che il regista sia una guida, una fonte di nuove conoscenze, semplicemente perché le ha, un punto di riferimento per gli attori, che può e deve incontrarsi con altre conoscenze e altri punti di vista, ma deve anche mantenere salda l’unità armoniosa della ricerca e del pensiero che sta sotto al lavoro in via di creazione. E’ qualcuno che è dotato di un’enorme energia: tutta quella che serve per non farsi tirare giù nei meccanismi relazionali, a volte torbidi perché inconsapevoli. Parlo di un “giù”, in relazione a come ci si sente quando vincono i meccanismi: schiacciati a terra. Il regista è quel qualcuno che deve saper tenere più di tutti gli altri gli occhi sempre rivolti verso l’alto e controllare anche le sue proprie bassezze. In questo è “servizievole”. Deve saper comunicare, con le parole, con il silenzio, con le azioni e anche con la sua assenza. Deve sempre dire quello che pensa e deve richiedere altrettanto, ma deve anche fissare le regole di questa comunicazione, le cui modalità non possono essere falsamente liberatorie e democratiche. Deve essere generoso di sé, ma deve anche saper individuare le possibilità di essere strumentalizzato e tirarsene via velocemente. Deve saper distinguere il piano dell’affettività da quello del lavoro, perché tale è il teatro, anche per dei dilettanti come noi, se lo si ama veramente: lavoro. E questo per il grande amore che portiamo verso l’arte. A ben pensarci quello che ho delineato è il ritratto ideale anche della mia figura di professionista: l’insegnante. E questo per il grande amore che portiamo (noi Lunatici) verso l’essere umano.

 

TEATRO E IDENTITÀ
Rimane da affrontare tutto il discorso relativo agli elementi di riflessione che, naturalmente e implicitamente, il teatro comporta in relazione al tema dell’identità/alterità.6 Affrontando questo argomento, il primo concetto che vorrei richiamare è quello di etica. E con questo mi riallaccio anche al discorso del regista.
A questo proposito infatti mi sono state utili fin dall’inizio del lavoro le suggestioni del grande Grotowski in merito all’attore-santo e all’attore-prostituta. Ora sono addirittura convinta che ogni persona che si avvicina al teatro e che cerca di trasmetterne il significato o la passione dovrebbe riflettere su questo concetto. Chi fa teatro può cedere con grande facilità alla tentazione di “prostituirsi”, in quanto per recitare bisogna servirsi del proprio corpo, o “prostituire”, dal momento che per fare una regia occorre servirsi del corpo altrui.
Il problema, soprattutto per chi, come me, e come molti altri che si occupano di teatro giovanile, è quello del difficile equilibrio tra spontaneità e controllo.
Il corpo si porta dietro tutto un sistema, per lo più inconsapevole, di segni, che risultano chiari all’interno dello stesso sistema culturale di cui attori e spettatori fanno parte. Al suo interno ci sono delle regole implicite, ma condivise, in base alle quali risulta lecito o meno esibire quanto il corpo stesso cela, vale a dire tutto ciò che ha a che fare con la sfera della sessualità, della fisicità, della relazione con l’altro. L’attore lavora necessariamente con tutto questo materiale, e ancora di più il regista, che perciò deve essere altamente consapevole delle responsabilità che si prende, e deve anche possedere profonde doti di intuito e sensibilità, in modo da non “snaturare” il corpo dell’attore con cui lavora, ma rispettandone la storia e soprattutto l’immagine mentale che ognuno si porta dietro del suo proprio corpo. Non è la stessa cosa usare il viso, il tronco, o le mani. Eppure tutti questi sono elementi linguistici del teatro, addirittura elementi di genere (mimo, comico, tragedia usano diverse parti del corpo).
Troppo spesso si vedono, anche nelle scuole, ragazzi che, provando la via del teatro, e innamorandosene, come è facile che accada, assumono inconsapevolmente la maschera dell’attore, di quello beninteso che si pensa sia un attore, cioè vestono un certo comportamento di genere, di casta, che lo distingue (e lo protegge) dagli altri. Anche in altri campi, come quello sportivo, si può assistere ad un simile fenomeno: espressioni del volto, posture del corpo, manifestazioni prosodiche vengono inconsapevolmente assorbite per servire allo scopo di omologare internamente ed esternamente, di dare un’identità forte, di servire all’unità del gruppo o del sistema culturale o sociale in cui si opera, facilitare i meccanismi di comunicazione, attraverso la condivisione inconscia di topoi comunicativi. È strano che questo accada in un settore, come quello teatrale, in cui nessuno degli operatori, a qualsiasi livello, alimenterà mai, razionalmente e verbalmente, il pregiudizio del teatro-finzione.
Ma allora i comportamenti dovrebbero svilupparsi più liberi e meno omologati, perché la forza dell’identità è quella individuale e personale. Quella di gruppo apparentemente rinforza, ma in realtà indebolisce l’individuo, se non lo rende consapevole di sé.
Questo è per me l’unico vero grande obiettivo del teatro. Infatti re-citare, può anche significare ri-prendere elementi dell’agire , della vita umana, per riviverli e proporli alla sensibilità di uno spettatore, che, a sua volta, se pur in modo diverso, li riviva. Nel riprendere questi elementi di umanità, l’attore e il regista si confrontano sui propri vissuti, sulle proprie reciproche identità, e scelgono se superare schemi auto-identificanti ed essere se stessi nella relazione, oppure no. la responsabilità è sempre del regista, che può, anche inconsapevolmente, usare corpo e mente degli attori per realizzare i suoi scopi. Per questo, la prima azione necessaria è la condivisione degli obiettivi, totale e sincera, che non significa dei mezzi.
Credo sia successo anche a noi di perdere questa condivisione per strada, o meglio, per come la vedo ora, di credere di averla persa. Tuttavia, l’impostazione iniziale è stata tanto fortemente comune, da far superare molte difficoltà.
Lavorare sull’identità può creare da sé dei meccanismi distruttivi. Il primo principio infatti per un attore è quello dell’identificazione. Non solo in un personaggio, ma nel lavoro e, nel caso di dilettanti come noi eravamo, o nel caso di un progetto fortemente condiviso, come è stato il nostro, nel gruppo che si crea.
L’equivoco può diventare quello di non saper distinguere tra individuo e gruppo, di non sapere individuare la propria funzione e il proprio apporto creativo, di voler credere che il gruppo sia l’elemento cardine, e che abbia il diritto-dovere di decidere su ogni cosa.
Lavorare sull’identità può rendere forte il gruppo (elemento di identificazione) e più deboli gli individui, soprattutto se rispetto ai meccanismi di identificazione devono o vogliono essere vigili, perché non li possono più usare e così rischiano di essere considerati dei corpi estranei, dei “traditori”, delle possibili fonti di inquinamento.
Eppure la vera forza di ogni gruppo è nella diversità degli individui (Eugenio Barba), non nella loro omogeneità, che tenderà ben presto a cambiare stato, causando un movimento centrifugo all’interno del gruppo stesso. Piuttosto è l’omogeneità degli intenti che può rendere forte un gruppo, ma senza che questo significhi la creazione di un identico credo che assolutizzi ogni spinta ad agire. I personaggi di Scie nel mare sono stati elaborati facendo riferimento a degli archetipi, con cui gli attori hanno potuto misurarsi e riflettere sul percorso di identificazione che stavano vivendo, comprendendo anche che l’identità può essere una trappola paralizzante, che forse può essere vissuta senza conflitti solo cercando e continuando a cercare, con infinita passione, la verità.

 

Sognavo che tutte le diversità che abitavano il Circolo Nuovi Orizzonti potessero incontrarsi, anche grazie ai nostri spettacoli. Non so se è accaduto e a che livello, ma so che i ragazzi di allora sono ora splendidi esseri umani, adulti e “in ricerca”.

 

 

Viandante, son le tue orme
la via, e nulla più;
la via si fa con l’andare.
Con l’andare si fa la via
e nel voltare indietro la vista
si vede il sentiero che mai
si tornerà a calcare.
Viandante, non c’è via
ma scie nel mare
(da: Antonio Machado, Proverbios y Cantares, 1930)

 

 


1 Negli anni dal 2000 al 2005 e oltre, la mia attività teatrale al Circolo Nuovi Orizzonti non si è limitata all’esperienza che racconto, ma “Scie nel mare” è stata quella per cui mi sono avvicinata al Circolo e credo, per tante ragioni, che sia rimasta la più significativa, non solo per gli attori, ma anche per il Circolo stesso. Con grande piacere ricordo però anche le altre attività svolte, che hanno visto il progressivo mutamento della composizione dei Lunatici: corsi diversi di avviamento al teatro; tra il 2002 e il 2003 “Questo libro è un lucignolo” spettacolo di letture e musica, in forma di oratorio, come riflessione sul dubbio nelle religioni del mondo (voci: Simonetta Carnevali, Antonietta Ermacora, Giovanni Nimis, Luigi Zanini, Rosanna Zoff e me stessa; musiche: quartetto di flauti dolci “Consort Van Eyck”; effetti sonori: Elisa Coloricchio e Matteo Pittoni); nel 2003 AI Nuovi Orizzonti, “Rosa das Rosas” (musica e poesia di GioCosTeatret); nel 2004 a Tarcento “Barlumi in fuoco d’acqua” (voci e movimenti scenici: Lorenzo Baldo, Simonetta Carnevali, Elisa Coloricchio, Antonietta Ermacora, Maurizio Faleschini, Andrea Molinaro, Matteo Pittoni, Elena Quaino, Costanza Travaglini, Federica Vincenti, Luigi Zanini; flauto: Tiziano Cantoni e Giovanni Nimis), a Udine, ai Nuovi Orizzonti, “Teatro in fiasco doc. Une riflesion.” (attori: Simonetta Carnevali, Maurizio Faleschini, Giovanni Nimis, Costanza Travaglini, Federica Vincenti, Luigi Zanini; percussioni: Giacomo Carpineti); 2005: a Udine, Circolo Culturale Pabitele, “Poreia”, ispirato a “L’ospitalità” di J. Derrida (attori: Simonetta Carnevali, Andrea Molinaro, Giovanni Nimis, Costanza Travaglini, Federica Vincenti, Luigi Zanini; flauto: Tiziano Cantoni). Oltre agli spettacoli dei Lunatici, sono state organizzati dei corsi di narrazione con l’attore di narrazione Roberto Anglisani, che è stato anche per due anni (2006 e 2007) al centro di un progetto dell’allora Seconda Circoscrizione per le scuole primarie e secondarie di primo grado del territorio. Alla fine del 2007 Roberto Anglisani ha tenuto ai Nuovi Orizzonti un’anteprima del suo spettacolo “Giungla”.

2 Davide Zoletto ora insegna alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Udine. Ha pubblicato, tra gli altri, un libro sull’educazione all’Interculturalità, dal titolo “Straniero in classe”.

3 Ci si può riferire anche agli studi di Putnam sul Capitale Sociale, tra l’altro oggetto di riflessione interna al Circolo Nuovi Orizzonti, grazie agli interventi di Giovanni Nimis.

4 Abbiamo tutti amato appassionatamente Jerzi Grotowskij e il suo libro “Per un teatro povero”, ma anche Eugenio Barba e via dicendo.

5 Il titolo era “L’identità di Scie nel mare”; non è stato pubblicato, ma l’ho distribuito allora a tutti i Lunatici.

6 Per questo argomento mi è stato molto utile il bel libro di Adriana Cavarero, intitolato “Tu che mi guardi tu che mi racconti”. A sua volta la Cavarero cita moltissimo Hannah Arendt.